
Personale - riflessivo - onesto! Questa è la nuova colonna di Lega svizzera contro il reumatismo, scritta da Céline Unternährer. Originariamente destinata alla nostra rivista associativa forumR, Céline Unternährer scrive della sua vita di persona affetta da un raro difetto genetico, offre spunti di riflessione sulla sua vita quotidiana e condivide con noi i suoi pensieri. È sempre possibile leggere l'ultimo numero online qui.
Autore: Céline Unternährer
Antidolorifici: una maledizione o un sostegno per le persone che soffrono di una malattia cronica?
Maggio 2025
La dipendenza da antidolorifici è, nei media, un tema di grande attualità oggetto di opinioni divergenti. Spesso, però, le notizie, tendono ad andare in un’unica direzione e a stigmatizzare chi assume oppiacei. Accanto alle persone che abusano degli antidolorifici ce ne sono altre che sono costrette a fare uso di oppiacei, e io sono una di loro. Senza antidolorifici non riuscirei a fare nulla. Le numerose fratture e infiammazioni articolari provocano dolori forti e persistenti che nemmeno con questi farmaci scompaiono mai del tutto.
Non assumo oppiacei per sballarmi o provare un senso di felicità, bensì per tenere sotto controllo i dolori almeno in parte,
che nel mio caso significa portarli da un livello di intensità 9–10 a un livello 6–7. Gli oppiacei mi aiutano ad affrontare e a superare le giornate, ossia vivere la quotidianità, andare agli appuntamenti, seguire le terapie e perfino alzarmi dal letto al mattino o prendere sonno la sera.
La malattia, quindi, mi rende dipendente dagli antidolorifici. Essere dipendente significa per me «non riuscire a vivere in assenza di qualcosa». Perché è proprio
così, senza questi farmaci non ce la farei. Gli antidolorifici mi aiutano a convivere con la mia malattia cronica. Eppure la dipendenza da essi viene fortemente stigmatizzata. Frasi come «con una dose così farei fatica a reggermi in piedi» oppure «non riuscirai più a liberartene, sei dipendente ormai da troppo
tempo» sono solo due dei tanti commenti di disapprovazione che mi tocca spesso sentire.
Pura e semplice stigmatizzazione: come se non preferissi di gran lunga vivere senza dolori e, quindi, senza oppiacei! Inoltre, si tende subito a stigmatizzare ancora prima di interrogarsi sul modo in cui una persona gestisce il consumo di antidolorifici. Parlandone si scoprirebbe infatti che il mio approccio con questi farmaci è molto rigido, che in rarissimi casi assumo medicamenti di riserva e cerco di sopportare anche i dolori molto forti per evitare di dover aumentare la dose.
Il mio obiettivo è quello di poter vivere, prima o poi, senza questa dipendenza. Vorrebbe dire, infatti, che sto molto meglio rispetto a come sto oggi e che i forti dolori causati dalla malattia sono diminuiti. Sono due aspetti, a mio avviso, collegati tra loro. Per questo riesco ad accettare questa maledetta dipendenza, perché so che assumerò gli antidolorifici solo fino a quando i sintomi della malattia mi obbligheranno a farlo.
Mi auguro che l’assunzione di oppiacei possa essere considerata in maniera differente, senza essere stigmatizzata in automatico. Solo perché certe persone abusano degli antidolorifici non significa che chiunque debba essere oggetto di un sospetto generalizzato e di condanna. Senza questo aiuto, infatti, io non ce la farei…
Convivo con la mia malattia, siamo un noi o formiamo una cosa sola? Qual è il modo migliore per gestirla? Sono domande che affollano spesso la mia mente. A volte io e la malattia conviviamo l’una accanto all’altra, altre volte siamo un tutt’uno.
Se ragiono secondo la visione «io E la mia malattia», avverto una netta separazione tra me e lei. Tutto ciò che prima mi caratterizzava come persona, quando ancora la malattia non era così invadente, rimane invariato. La malattia è un qualcosa in più. Pensando in questo modo mi è più facile ignorarla, anche se lei non scompare ed è comunque presente nella mia vita. Ma è davvero possibile operare una distinzione così netta? Dal mio punto di vista non proprio. Io la vedo di più come un «noi»: la malattia, infatti, mi influenza come persona e, viceversa, io influenzo lei con le mie azioni, i miei principi e i miei atteggiamenti.
A volte, però, non mi dispiacerebbe una separazione più netta tra me E la mia malattia. Avrei il desiderio di metterla da parte ed essere semplicemente solo «io». Ma di quell’«io» ormai da molto tempo fa parte anche lei, perché dalla mia malattia cronica purtroppo non posso prendermi una pausa.
In tutti questi anni ho capito che pensare a me e alla mia malattia come a un «noi» è la premessa per gestirla in modo sano. Cerco dei modi che mi aiutino a fare i conti con lei e con le conseguenze e le limitazioni che comporta. Perché condurre una battaglia contro la malattia e, quindi, contro il mio corpo implica uno spreco inutile di energie. È molto più importante sapere quando c’è urgenza di ascoltarla, nel momento in cui rivendica a gran voce la sua presenza e pretende di avere un posto nella mia vita. Negli anni il lavoro di ascolto si è intensificato. Ho imparato ad ascoltarla precocemente, a badare ai sintomi e ai segnali silenziosi che mi lancia e, allo stesso tempo, a dedicarmi le dovute attenzioni. Così facendo riesco a riconoscere per tempo le ricadute, a prendere le misure necessarie e a ridurre al minimo i dolori. Riesco anche a ritagliarmi attimi di vita lontano da lei. Così posso godermi i bei momenti, gestire le difficoltà di tutti i giorni e scrivere i ricordi.
Negli anni ho capito che un «noi» non significa «una cosa sola», in cui la mia persona viene assorbita totalmente dalla malattia fino a scomparire. Perché nel «noi» c’è ancora l’«io», con tutte le mie peculiarità, le forze e le debolezze che mi rendono unica come persona.
Quando esco di casa sento molti sguardi su di me, perché con la mia malattia attiro l’attenzione; del resto, non posso certo nascondere la mia sedia a rotelle, le ortesi e i bendaggi nonché la maschera protettiva contro le infezioni. Vengo vista e considerata malata non solo dalla società ma anche dall’ambiente medico. Nessuno penserebbe di me che sono sana. Le persone con una malattia non visibile dall’esterno - e in Svizzera la maggioranza di esse rientra in questa categoria - sono esposte a giudizi di questo tipo. Se una persona è apparentemente in salute spesso si trae una conclusione del tutto errata: se sembra sana è sana.
Ma le malattie «invisibili» possono essere altrettanto gravose, impegnative e logoranti. La mia malattia è caratterizzata da un insieme di manifestazioni in parte visibili e in parte invisibili e i sintomi che mi logorano di più sono proprio quelli che non si vedono, ossia i dolori cronici. Nessuno li vede, ma hanno un impatto significativo sulla mia vita e mi sottraggono molto tempo e tanta energia. Le persone con una malattia non visibile dall’esterno devono lottare per far sì che la loro malattia venga riconosciuta e presa seriamente in considerazione e spesso sono anche costrette a dimostrarla, poiché se qualcosa non si vede vuol dire che non esiste. Una situazione che nasce dall’ignoranza, pesante e difficile da sostenere, che toglie molta energia e lascia ferite profonde.
C’è però da dire che entrambe le forme di malattia possono avere dei vantaggi. Ad esempio, è più facile nascondere una malattia non visibile agli occhi esterni e non far trapelare il proprio disagio in determinati contesti sociali. In altre parole, ci si può immergere nel «mondo dei sani». Per contro, però, con una malattia visibile vengo presa più seriamente in considerazione e trattata con maggiore riguardo, mi viene offerto aiuto spontaneamente e senza esitazione. Spesso però questo implica anche il rovescio della medaglia: ricevere giudizi affrettati e scarsa fiducia. I segni della malattia sono così evidenti e predominanti da farmi trascurare e sottovalutare come persona.
Non poter mai celare la propria malattia attirando costantemente l’attenzione su di sé può sottrarre tanta energia. A volte vorrei tanto non essere sempre prigioniera di questa diversità, non attirare l’attenzione e non suscitare pietà, non sentirmi più sempre osservata e riuscire a confondermi tra la moltitudine della gente sana, nella massa. Lì dove le persone con malattie non visibili vengono dimenticate e trascurate.
Il nostro editorialista
Céline Unternährer – Ha 29 anni e da più di quattro anni la sua vita quotidiana è stata piuttosto scombussolata a causa di un difetto genetico estremamente raro. Il cambio di prospettiva, che dallo svolgere la professione di infermiera specialista in clinica generale l’ha portata a essere affetta da una malattia cronica, le ha fatto scoprire nuovi punti di vista. Ogni giorno sperimenta in prima persona gli ostacoli e le difficoltà che le persone con limitazioni sono costrette ad affrontare. Questo la motiva a impegnarsi per una maggiore inclusione e un ambiente con meno barriere.